martedì 3 novembre 2009

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Qui l'originale

Elisabetta Bucciarelli e la scrittura
pubblicato il 16 ottobre 2009 alle 14:34
scritto da Simone Gambacorta
tematiche affrontate: interviste

Ha scritto e scrive testi teatrali, sceneggiature, racconti, romanzi, saggi, articoli giornalistici. Per Elisabetta Bucciarelli la scrittura è più di un mestiere, è una vocazione naturale, un’inclinazione dell’animo. Soprattutto, è una fonte di continua ricerca: stilistica e interiore. L’abbiamo intervistata per vedere come funziona il suo banco di lavoro. Le risposte che ci ha dato sono ricche e succose. Utili per chiunque ami la parola, non solo quella narrativa.

Leggendo il tuo curriculum viene da pensare: una vita nella scrittura. Partiamo da qui, da questa presenza, dal suo “significato”…
“Ogni tanto ci penso anch’io e cerco l’inizio. Ma non c’è un inzio. Esiste invece, da sempre, un grande amore e un profondo rispetto per la parola. Una predisposizone che qualche insegnate illuminato ha intuito fin da subito. Credo che il significato si possa intravedere nel mio disperato tentativo di farmi ascoltare, di essere il più chiara possibile quando dico, e di raccontare storie che conducono, come succedeva a me da piccola, in mondi diversi, dolorosi, ma fertili”.

E sul punto torneremo più avanti. Ora vorrei invece chiederti questo. Sceneggiature, romanzi, saggi, articoli giornalistici: in quale di queste direzioni hai mosso i primi passi?
“Ho inziato con il teatro. A vent’anni sono entrata nel laboratorio di drammaturgia del Piccolo Teatro, ora Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Quindi ho lavorato sulla drammaturgia, dialoghi e monologhi e ho scritto i miei primi testi teatrali. Poi sono arrivate le sceneggiature cinematografiche. Era un momento molto effervescente a Milano, prima di tangentopoli e della fuga generale di tutti. Pieno di stimoli e di incontri capaci di cambiarti”.

Qual è il tipo di scrittura dove ti senti più “tu”?
“Ho avuto la fortuna di scrivere e mettere in scena cose mie. Ogni volta che riesco a coniugare una modalità di scrittura con i contenuti che devo esprimere mi sento a posto”.

Un tuo saggio s’intitola “Io sono quello che scrivo. La scrittura come atto terapeutico” (Calderini). In che senso la scrittura può essere considerata una terapia?
“La scrittura è teraputica sia per chi la pratica che per i lettori. Permette di uscire da sé, di spostarsi dal proprio ombelico e di mettersi alla prova. Fare finta di essere, sperimentare strategie di sopravvivenza. Osare. E poi riesce a stimolare e produrre una gamma di emozioni fortissime. Indignazione, commozione, odio e amore. Fa bene. Anche quando è brutta”.

Fra le varie forme di scrittura che pratichi, qual è quella per te più terapeutica?
“Credo la drammaturgia teatrale. E’ una sorta di psicodramma che si ripete ogni sera, ma non è mai uguale. E le emozioni che passano con il teatro non sono paragonabili a niente”.

Da anni tieni anche il laboratorio “Esprimersi con la scrittura, scrivere per stare bene”: di che si tratta?
“Credo che la scrittura creativa non esista. Tutto è creazione. Anche una torta alla meringa. Esiste invece un tipo di espressione che può essere aiutata dalla parola scritta. Migliorata e compresa meglio. E’ il modo di essere di ciascuno di noi. A questo servono i miei laboratori, a capire da che parte stiamo andando con le parole, ad acquisire una padronanza maggiore, a non farci condurre ma a guidare noi, a evidenziare le carenze emotive. Tutto questo solo attraverso l’analisi dei nostri scritti. Che avviene in diretta. E’ divertente e anche molto emozionante”.

Hai pubblicato anche “Le professioni della scrittura” (Eda-Il Sole 24 Ore)…
“Ho indagato tutti gli ambiti professionali – o quasi – in cui si utilizza la scrittura e ho cercato di dare qualche consiglio agli aspiranti. Strategie pratiche per incoraggiarli a continuare, magari lasciando da parte la narrativa e invitandoli a sperimentare altre aree incentrate sempre sulla scrittura”.

Ma non hai lasciato da parte la comunicazione. E infatti “Strategie di comunicazione” (Riza Scienza) è il titolo di un altro tuo libro…
“L’esperienza a “Riza psiocosomatica” (rivista mensile, ndr) mi ha fatto crescere molto. Sono diventata pubblicista e ho imparato a capire cosa sono i simboli e i miti. In più ho approfondito le tecniche di comunicazione, grazie alla presenza di veri maestri. Parietti, Morelli, Parsi: solo per citarne alcuni”.

Partendo quindi dal presupposto che scrivere è comunicare, possiamo concludere che le varie angolazioni da cui hai riflettuto sulla scrittura altro non sono che variazioni sul tema di un solo amore: quello del dire, del trasmettere, dello scrivere, appunto. Sbaglio?
“Non sbagli affatto. L’amore immenso per la parola. La scelta continua di non arrendersi alla dotazione minima che ci è stata donata. La ricerca continua del modo migliore per dire, e scrivere. E soprattutto ritrovare il vero significato delle parole, che si è perso nel tempo e con le consuetudini sbagliate del nostro presente approssimativo e superficiale”.

Hai pubblicato anche romanzi: “Happy Hour” (Mursia), “Femmina de luxe” (Perdisa Pop), “Dalla parte del torto” (Mursia) e “Io ti perdono” (Colorado noir/Kowalski). Sono tanti, complimenti…
“Grazie. Ma non sono tanti. Anzi. Sono di più i racconti. Ma anche questo è un conto che non vale. Invece trovo interessante che siano diversi. Che tra il primo e l’ultimo ci sia un vero mondo. Una crescita, un passaggio di stato, un equilibrio differente”.

Mi dai di ciascuno una micro-descrizione? Però “tua”. Voglio dire: un po’ di parole che riflettano il tuo sentimento verso ciascuno di quei romanzi?
“Happy Hour” mi fa tenerezza. E’ acerbo, nervoso, adolescente. “Dalla parte del torto” è bulimico, ridondante, surreale, arrabbiato. “Femmina de luxe” è armonico e allo stesso tempo fastidioso. Ma gli voglio molto bene. Infine “Io ti perdono”. Credo sia il meglio riuscito. Il più dolente ma anche il più autentico”.

Ma che cos’è per te un romanzo? Come pieghi, cioè, alle tue istanze creative la vastità di questa forma?
“Il romanzo è un modo per raccontare storie. Ti permette di andare fino in fondo e di utilizzare un numero maggiore di parole rispetto alle sceneggiature e ai testi teatrali. Non chiede aiuto alle immagini ma le forma insieme alla mente del lettore. Poi è anche il luogo privilegiato per porre domande, sollevare dubbi e provare a proporre percorsi. Infine è un duetto: chi lo scrive con chi lo legge. Ci si ama alla fine, ci si odia o si cambia strada nell’indifferenza più assoluta. Tutte e tre le possibilità hanno dei precisi significati”.

Tra il primo e l’ultimo libro, la tua idea di romanzo è cambiata?
“La mia idea di romanzo non è prestabilita ma segue strade complesse. Per esempio può modificarsi dopo aver letto libri altrui o aver visto lavori artistici o cinematografici. Questo nella struttura. Ciò che cambia è il modo di affrontare la scrittura o/e la lettura. Il mio stare in bilico sul burrone. Se prima mi lanciavo e arrivavo alla fine senza aver visto niente – e rischiando di schiantarmi al suolo – ora sono in grado di osservare quello che mi circonda e di scegliere cosa trattenere e cosa no. Il altre parole ho un controllo differente, sia di me stessa che di consegunza del romanzo che scrivo. Ho più possibilità e meno paura”.

Ma uno perché racconta?
“Ti posso rispondere perché lo faccio io. Essenzialmente per due motivi. Uno è razionale: credo di avere la necessità profonda di essere ascoltata, compresa, amata. L’altro devi prenderlo così: non posso fare altro”.

E il romanzo quali possibilità di racconto ti offre?
“Tutte le possibilità che la mente è in grado di contemplare. Ogni tanto, infatti, arriva qualche mente geniale e ci propone qualcosa di mai conosciuto. Pensa a Zola con “Il ventre di Parigi”. Vere e proprie rivoluzioni”.

Quali sono le tappe che affronti affinchè un tuo libro veda la luce? C’è un’idea, poi magari vengono degli appunti, poi ancora la scrivania, e poi poi poi stesure e ristesure…
“Prima c’è un’emozione. E la necessità di renderla solida, di fermarla o esorcizzarla. Poi arriva l’idea che la contiene. Immediatamente si attacca alle storie che già conosco e ne trascina qualcuna, lasciandone perdere la maggior parte. Quindi arrivano le parole, ed è la fase più difficile. Le segno tutte. E quando è il momento parte la scrittura che, ovviamente, modifica molte circostanze che davo per acquisite e ne crea di nuove, trascinandomi, a volte, dove non credevo di poter andare. Le stesure sono tante, di solito. Nell’ultimo libro, “Io ti perdono”, il punto di partenza è stato la paura di perdere qualcosa di importante”.

Come capisci di aver tagliato il traguardo?
“Quando mi tirano via il libro dalle mani”.

La tua scrittura, il tuo stile, è asciutto, ritmato, fratto, rapido. Hai sempre scritto così?
“No, e non so se andrò avanti a scrivere così. La mi sfida è mantenere la voce ma cercare, appunto, di trovare le migliori parole per dire. “Io ti perdono” aveva necessità di una scrittura secca. Essenziale. I temi trattati sono già forti e pieni di lessico nell’immaginario comune, non servivano tante parole. “Dalla parte del torto”, invece, tratta un tema molto colorato ma privo di un suo lessico, perché è un tabù. Lì ho esercitato l’arte dell’accumulo e della ridondanza”.

Le soluzioni stilistiche sono dunque frutto di una ricerca che si “aggiorna” caso per caso…
“L’idea di scrittura è legata a doppio filo alla ricerca. Allo studio della parola. All’impegno di trovare il meglio per dire. Sempre considerando il tipo di narrativa che sto facendo. E forse proprio per questo. La narrativa di genere ha come caratteristica di base l’intrattenimento, ma questo può essere fatto in modo più o meno interessante, sia per la storia che racconti sia per il modo in cui lo fai. Non credo in una bella storia scritta in modo sciatto. E’ destinata a piacere ma non a rimanere nel tempo”.

Prima parlavamo del dolore e del potere terapeutico della scrittura. Ora vorrei chiederti questo: quando si scrive, quando si racconta, quando con una trama ci si inoltra – come tu stessa fai – nelle regioni liminari dell’agire umano, che tipo di esercizio si compie?
“Per chi scrive è certamente una vera e propria indagine all’interno di Sé. Non so con quanta consapevolezza o meno. E’ una sorta di transfert con personaggi e avvenimenti, un farsi altro per arrivare sinceri e forti al lettore”.

Quando si racconta una qualsiasi storia – qualunque essa sia, e al di là degli aspetti autobiografici – quale e quanta è la quota di scavo che occorre esigere da sé?
“Ci sono molti modi di affrontare la narrazione. È sufficiente guardare cosa ci propone il mercato. Ci sono storie avvincenti, che ti trascinano e con la stessa forza ti abbandonano alla fine. Ci sono libri senza storie forti, ma con atmosfere potenti. Autobiografie travestite da romanzi. E narrativa di consumo che ti spinge a iniziare ricerche storiche anziché umane e personali. Ogni libreria è come una farmacia dove si curano desideri e malattie. Nelle mie storie ci sono pochissimi aspetti autobiografici, cose capitate a me nella vita reale. Ma tutta la gamma delle emozioni è autentica. Le emozioni sono state metabolizzate, passate al vaglio. Ho sofferto, gioito, fatto soffrire, ma anche reso felice. Ho aspettato, cercato spasmodicamente. Ho pianto. Sono stata sola e ho avuto molta paura. Conosco l’umiliazione e la presunzione. Non baro su questo. Ho fatto anni e anni di lavoro su di me. Riconoscendo emozioni e stati d’animo. Quello che propongo mi è chiaro al millimetro. E se qualcosa mi sfugge è per l’enorme potere della scrittura. Ci lavoro dopo che il libro è uscito. Grazie ai lettori, che sono il motore della mia crescita e che mi restituiscono, soprattutto sull’ultimo libro, schegge delle loro esistenze formidabili”.

E questo a cosa porta?
“Si chiama rischio. Se tu proponi emozioni con le parole, scateni emozioni. Che non sono mai tutte dello stesso segno. Ma vale la pena”.

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